Blueberries

Dietro ogni svolta
incontro ricordi –
parole incastrate
tra le mie labbra di ieri,
zucchero di canna che incrosta i pensieri
e le mie dita intrecciate a una stringa
aggrappate ai bicchieri
“dimmi” ti domando “dimmi
come fare, ancora”;
la tua spanna è misura
del quando, del sempre del mai
di tutti i miei desideri
mentre “sopra” mi dici “poi lascia andare – vai –
ecco, ora
sotto.”
E gioco con la notte, di soppiatto
a confondere i futuri fra loro
ad annodare questo tempo rotto
nelle nostre mani
accoccolata dove tutto
sa di felicità e mirtilli
dove ogni frutto
canta della tua voce, se lo mordi
e l’anima si allenta, molle come una stringa sciolta.
Incontro cento ricordi
dietro ogni svolta
e chino il capo a raccattare
sorrisi segreti dalla strada
da tenere per me,
da chiamare a raccolta
quando poi tutto scolora
per quando sola vorrò gridare
“dimmi – oh, dimmi
come fare
ancora!”

Luminara

Il tintinnio cristallino che il frammento verde di una bottiglia di birra produce capitombolando sul selciato mi fa aprire gli occhi, e mi riporta per un momento all’Altra Realtà.
Quella dove le cose sono musiche, le persone canzoni. Non la realtà vera: quella falsa.
Ascolto la luce che s’infrange per terra in piccoli riflessi taglienti, il vociare di cose usate, rotte, che si leva fetido dal Cumulo della Spazzatura, e il tempo che vibra cupo e notturno contro lo stomaco, a ritmo con una canzone che giunge stranamente distorta dal bar qua dietro.
Dlin-dlin, fa il collo di bottiglia di nuovo, spinto verso da me da un piede affrettato e distratto.
Mi accosto al calore soffice del corpo che ho accanto, come per cercare una comunicazione nell’unico modo non impossibile, ora che ci troviamo immerse in realtà differenti; vorrei essere di conforto, o d’aiuto, o forse vorrei essere confortata; vorrei dirle qualcosa; chiudo gli occhi di nuovo, nella speranza che essere semplicemente qui sia sufficiente.
Ecco, penso. Forse quello che le persone vedono quando fanno uso di droghe assomiglia all’Altra Realtà. Forse è un universo che canta, un po’ come il mio in questi momenti, meno il sentirsi soli.
Dlin-dlin-dlin, fa il collo di bottiglia, tutto fiero nella purezza celeste delle sue armoniche.
Forse ognuno vive un sogno suo, e le altre persone non sono che apparizioni plasmate dalla coscienza del sognatore. Maschere, personaggi di una storia, veri soltanto nel loro proprio sogno, che è inaccessibile a chiunque altro. Inaccessibile a me. Forse tutto ciò che si può fare è amare, odiare maschere colorate che intessiamo allo scopo, in un teatro di cui si è unici attori, spettatori, registi.
Apro gli occhi di scatto. Non è vero.
La realtà falsa si scioglie nella puzza e nel clamore e nel freddo affollato di quella vera, un collo di bottiglia tace e gente intorno balla, beve, parla.
Non è vero.
No, mi dico, è che qualche volta mi ricordo che sono un po’ asociale. Tutto qui. Mi sorprendo che una filosofia del genere mi risulti così profondamente angosciante, abbastanza da risvegliarmi alla realtà vera, a noi seduti sul limitare dell’aiuola, parole luminose zoppicanti che prendono forma su un cellulare alla mia sinistra mentre i discorsi alla mia destra oscillano in un delirio di rivelazioni, immagini e desideri sconclusionati.
“Ma ma ma… ma. Guarda! C’è un mucchio di spazzatura davanti a noi!” Un tono scandalizzato, e qualche farfugliamento su come una cosa del genere offenda la sensibilità di un lombardo.
Rido.
Forse in fondo siamo persone vive nello stesso universo. Almeno, tutti vediamo la spazzatura.
“Spostiamoci” dico, non senza un certo sollievo “la spazzatura lo offende.”
Ho sempre pensato che la luminara sarebbe così bella, se solo sapessi volare sopra tutti quanti. Forse troppe persone sono una cosa che il mio cervello non riesce a immagazzinare efficacemente, e allora mi sento spiacevolmente schiacciata e oppressa, mi monta un fastidio verso tutto, tutti e vorrei andare a casa. Per di più è una sera d’estate, e nelle sere d’estate più che in qualsiasi altro momento mi spira sul viso il bisogno sottile di qualcuno che mi tenga la mano, che poi è una cosa così stupida e insensata perché d’estate fa caldo.
Stupida, mi dico. Canta una ninnananna alla tua stupida stupida coscienza e mettila a dormire, andrà tutto meglio.
Le persone esistono. Se la vita fosse un sogno una preghiera a fior di labbra sarebbe sufficiente per dare a tutto quanto la forma che vuoi, o almeno una più sopportabile, e invece non lo è. Alla faccia tutti i pensieri che hai consumato come fiammiferi, la realtà è qui, sempre, buia. Il che è fantastico, forse, perché significa che prima o poi potrà sorgere veramente il sole.
Ne traggo un sollievo inaspettato, mentre ascolto discorsi su come sarebbe bello volare per vedere l’altro lato della luna, e poi andare a vedere se alfa centauri è una palla d’idrogeno oppure… cioè… una luce…
Accendo un altro pensiero, uno di quelli piccoli che bruciano solo per poco, sottilmente profumato; le mie dita si arrampicano in automatico tra i capelli, ne ridiscendono formando una treccia.
Chissà se è la stessa treccia di un anno fa, solo più lunga. Ci sono momenti in cui ho questa tendenza insensata a intrecciare ciocche di capelli, perché le trecce sono come piccole poesie nell’Altra Realtà.
Il percorso verso casa è contorto e costellato di saluti traballanti, e sorrido davanti all’insistenza nella ricerca di un cassonetto cui fare visita (perché è importante! Perché ho un… coso… cos’è quella parola…? Senso… civico?).
Dlin-dlin, canta felice la bottiglia quando trova riposo nel contenitore della raccolta differenziata.

L’ultima fragola

Ci sono parole e parole. E parole.

A volte, sola con la luce gialla di camera mia e il cestino delle fragole, mi domando chi sono; e chiudo gli occhi e mi specchio nella polla immobile dentro di me, là dove ogni parola nasce e ogni parola muore, e mute ci guardiamo, io e me, me ed io; e come sempre – ecco – lo so.

“Sei in estasi mistica” mi hai chiesto “o stai morendo?”

“Sono in estasi mistica” ti ho risposto “per la fragola.” E sto morendo, sto morendo, sto morendo.

Hai sorriso il tuo sorriso di sempre.

Ho respirato il tuo respiro, e sapeva di precipizio nel buio, di labirinti, di nuvola perduta in fondo all’abisso, di lune affilate contro le palpebre chiuse. Ma non importa.

Qui, sola, ascolto il silenzio, e con gli occhi di una madre osservo le mie parole che di continuo si sparpagliano attorno: figlie giovani, inesperte, belle, dolci, ingrate, ribelli, labili, fragili, vere, false, innocenti, colorate, mie. Non è un tempo in cui io abbia voglia di guardarmi da ciò che dico, non più. Non è un tempo in cui io abbia voglia d’essere altri che me, non ora. Non è un tempo in cui io possa scendere a compromessi. Non qui.

Cosa non darei per pensare i tuoi pensieri, una volta soltanto. Cosa non darei perché importasse, solo per oggi, solo per un minuto, un secondo.

Mi domando se il mondo degli altri sia fatto della stessa sostanza del mio: di sensazioni composite ma così limpide, così preziose; se nella felicità, nella delusione, nell’affetto, nell’imbarazzo, negli errori tutti quanti ascoltiamo rapiti il silenzio dietro, il rumore dell’anima che germoglia. Cosa c’è di male nel danzare con i propri sentimenti, fissarli negli occhi e farsi insegnare passi nuovi, riscoprire movimenti dimenticati, volteggiare attraverso il tempo? Amo il sentore della sabbia fra le dita, e l’inconfondibile color caccola di quella maglietta (dicevano fosse cachi), il fatto che mi costringa a fissare di nascosto quelle minuscole macchie di luce castana nelle tue iridi azzurre, e poi le onde dei tuoi capelli e quel movimento improvviso del bacino che so bene, quando la pallina del subotto minaccia un gol che non ti aspettavi; e amo anche il cielo e i tetti di Pisa che si vedono da una finestra di collegio, i silenzi infiniti imbarazzati tristi, quello sguardo dolce e interrogativo, quelle lacrime, quei baci soffici e quell’aria sperduta; amo i miei pensieri giusti e i miei pensieri sbagliati, le fragole e la panna, le cose che nascono le cose che muoiono, le canzoni e il verso degli uccelli a sera d’estate.

Cosa importa, dopotutto? Non è meravigliosa la vita? Non chiedo altro che la libertà d’essere infelice, la libertà di essere me. Mi accorgo che non ho finito di succhiare nettare da sogni soffusi e dolcemente impossibili, e finché ve n’é ancora anche solo una goccia non posso che tornare fra gli stessi petali, di nuovo, a implorarne dell’altro. Farai male a te stessa, mi dicono, e io non capisco davvero: non lo sanno di cosa è fatto il mondo? Non sanno che si sopravvive all’infrangersi dei sogni, che un giorno il nettare finisce e la tristezza ha il sopravvento, ma che dal polline rimasto imbrigliato fra i veli del sé nasceranno mille e mille fiori nuovi, in luoghi diversi e imprevedibili? E se anche vedrò appassire quella corolla così invitante, così accogliente, se anche vorrò morire per il desiderio di labbra che mi sono irraggiungibili, se anche mi ritroverò a piangere da sola davanti al mio cestino di fragole, ditemi, ditemi, che male c’è?

Prenderò le parole più belle, quelle più dolci e profumate, e le intreccerò in una collana di versi, da regalare a questo universo in cambio del tuo sorriso di sempre, in cambio di tutti gli amori non ricambiati.

Ho tentato di spiegarlo, mentre il cielo ostentava il suo imbrunire dietro quella finestra: amare è morire, è cadere in pezzi e ricostruirsi daccapo, un giorno dopo l’altro; amare è il desiderio dirompente d’essere vento ruvido e carezzevole su una spiaggia assolata, di essere quella fragola rossa per poter percorrere, una volta soltanto, il misterioso sentiero d’aria che conduce verso l’abisso di un bacio.

Amare non è quello che stiamo facendo. Nella solitudine ci siamo cercati, senza trovarci mai; più che questa dolcezza stinta oramai non so regalarti, perché altrove nascono i miei colori, lontano. Ti voglio bene, ma. Mi sei caro, però. Siamo uno iato, non un dittongo. Siamo cose accostate a caso. Non ti appartengo, e tu non appartieni a me. Non sei il mio tu.

Lasciatemi amare dove posso, morire del sapore di una fragola perché per un istante possa non esistere altro. Lasciate che io mi faccia male, perché porto con me le parole per lenire le mie ferite. E se un giorno qualcuna mi mancherà, sapreste essermi accanto e trovarla per me? E se dovessi non trovare quelle giuste per voi, saprete mai perdonarmi?

Volevo solo che quella fragola potesse insegnarmi la strada. Volevo solo essere felice, un po’. Volevo solo le cose sbagliate, lo sai, lo sai, lo so.

Ma il mondo è bellissimo, capite, perciò non importa.

Rumor Has It

Passerà. Passerà, mi ripeto, e come al solito non so dire se davvero sia quello che voglio, o se io non viva piuttosto per questi momenti di follia che ancora vengono e vanno, per suggerne l’incanto e la disperazione e il desiderio e nutrirmene in religioso silenzio.
Tento d’inventariare i ricordi di una sera pazza e in qualche modo preziosa, di stimare le perdite: un vuoto imbarazzante sul momento in cui abbiamo aperto il divano-letto, ci siamo preparate per dormire (devo averlo fatto, ma quando e dove mi sono infilata il pigiama? Ho dato la buonanotte? Qualcuno si è occupato del materasso gonfiabile? Chi ha messo in salvo la mia roba?). Ricordo la cena e la Tequila sale e limone, e forse del Gin, e il Rhum e pera e le canzoni e i balli e poi la Rossa che mi porge un altro bicchiere
ecco: qualcosa di rosso, forse, una Vodka alla fragola
dolce
ma forse no, forse frizzante
forse erano due drink diversi, due momenti diversi.
Fa lo stesso. Ricordo il rumore di segreti gridati
vattene, Pietro!
e io che in quel momento non provo sorpresa nel riconoscere la verità che mi ribolle dentro, calda e limpida e terribile ma così liberatoria: la farei danzare sulle labbra e la griderei, tutta quanta, se non fosse che non ce n’è bisogno
lo sa, lo vede, tutti lo vedono benissimo
ma non me ne importa, davvero; il bene e il male si abbracciano e ballano assieme, vicini, indistinguibili, e non ho lo spazio, il tempo per giudicarmi, per darmi della stupida o della stronza mentre annuisco senza ritegno e bevo le parole di comprensione che mi giungono in cambio come se la mia stessa vita ne dipendesse. E poi
non dovrei dirtelo, veramente… dice la Rossa.
E’ buffo come questo sia il ricordo più limpido di tutta la serata, nonostante la Tequila e il Rhum e la Vodka e la sottile nebbia che lo circonda. E’ un’isola dai colori nitidi e sgargianti perduta in uno spazio-tempo grigio e non del tutto a fuoco; e perfino in quel momento, ubriaca oramai, so che non significa niente, che le parole sono vento e le sensazioni sono più lievi ancora, subdole e incerte e passeggere. Eppure lo sento benissimo, il cuore che mi si stringe; tutto quanto è rosso: i suoi capelli e la luce soffusa delle candele nella stanza e, ora ne sono sicura, anche il mio drink.
Alessandra, ripete, a sigillare il piccolo segreto che mi consegna in cambio dei miei non detti, come per accertarsi che io abbia capito. Ma anche quella è una parola, null’altro che vento, e lo so lo so lo so che non significa nulla. Eppure la verità si agita dentro di me e prende a pulsare contro la pelle, contro le labbra, negli occhi.
Ed ecco, sono chiusa in bagno e sto singhiozzando. E’ come dopo la festa di carnevale, quando piangevo trascinandomi dietro la mia enorme luna d’argento, sola per le vie deserte di Pisa, sopraffatta dal senso di sbagliato e d’isolamento, dal desiderio e dalla nostalgia. Ma è diverso, perché stavolta non sono sola e lo sento benissimo: fuori dal bagno ci sono tutti gli abbracci che posso desiderare, e io non sono lontana e trasparente invisibile, ma presente e accaldata e fatta di carne. Per cui, mentre come allora penso è-tutto-sbagliato-è-tutto-sbagliato-ho-sbagliato-tutto so che invece va tutto bene. E non ho lacrime ma solo singhiozzi irregolari e zoppicanti che mi scuotono tutto il corpo (il pensiero che abbia a che fare con l’alcool e la disidratazione mi attraversa rapido e distratto). Non credo di essere triste. In un certo senso credo di essere felice. Bussano.
Sto bene sto bene esco subito. Lo penso o lo dico, lo faccio; e di nuovo il rosso e la danza e la vita mi turbinano attorno, incolpevoli, a consumare il tempo di questa sera, questa notte, come la fiamma una candela. Come la verità mi brucia da dentro, e che altro posso fare io se non attendere che ancora tremi sofferente e si spenga, così da potermi abbandonare alle illusioni che mi sforzo di leggere nel fumo?
Mentre mi ispeziono le occhiaie in una mattina dal tempo incerto penso all’incantesimo Desiderio (che è di nono livello) e ai geni e alle lampade, che sembrano in tema per una serata araba; penso ai miei stupidi desideri, alle conversazioni a mensa sull’utilizzare un genio per evocare un altro genio, e mi domando se, una volta capitatomi a tiro un genio, mi passerebbe per l’anticamera del cervello il sano pensiero da matematico di cercarne infiniti.
La verità è no.

Neve

Riconosco ovunque ritagli
della tua sagoma vuota
e distolgo gli sguardi, e ascolto
la mola che arrota
stridendo
la lama dei miei sbagli:
presto la faremo affilata
e molto,
che possa spezzare
questi versi avvizziti,
recidere le spire
di sogni proibiti
e infine attraversarmi
brivido gelato nella notte scura,
mia algida amica insegnarmi
sicura
a morire.
Oh, mia memoria, ti prego
non mentire
filando abissi leggiadri
dolci da corteggiare.
Vorrei solo, soltanto
sparire
lontana da ogni breve
pensiero d’amore
disperdermi sconfitta nel freddo
per divenire
neve.

Fantasia di porte

La serata di ieri ha prodotto una serie di frammenti – un po’ in versi, un po’ in prosa – di una malinconia indicibile, e pietosamente inconclusi. Vorrei potermi dire che è stata una cosa catartica, un indulgere in ricordi inaspettatamente dolci e dolorosi per l’ultima volta, per lasciarli indietro tra le braccia dell’anno che muore. Mentirei a me stessa, spudoratamente: è tutto quanto ancora qui, e se mai questo desiderio algido, platonico e delicato come un magico fiore di vetro mi lascerà del tutto, non sarà oggi, né domani. Anche quando gli ultimi echi di una tenerezza involontaria si saranno spenti, soffocati alla fine nelle lontananze, e quando primavere nuove e diverse si saranno succedute nel giardino delle mie voglie, ho come l’impressione che tutto questo se ne starà lì, immutato, simbolo di un amore trasparente e aereo, azzurro, forzatamente letterario, che si vendica con l’immortalità del fatto che il reale non abbia potuto incatenarlo agli ingranaggi del tempo.

Pensavo, perciò, alle porte. Porte che ho visto aprirsi, porte che ho visto chiudersi in questo anno strano e breve. Pensavo, lo ammetto, ancora e ancora, a quella porta chiusa contro la quale, timida e ammutolita, ho bussato piano in una sera di luglio, a quelle due parole dolcemente apologetiche, sfumate da un sorriso e da un lieve retorico tono interrogativo, il rumore di una chiave che gira decisa nella toppa ed echeggia di tutto ciò che non avrò mai, mai, mai. Mai dire mai, che pazza meravigliosa sciocchezza.
Ma oggi va meglio. Mi chiedo se questi deliri e struggimenti senza capo né coda siano almeno in parte regali del cortisonico, che il foglietto illustrativo dichiara possibile latore di euforia, profonda depressione, cambiamenti nella personalità, sintomi di psicosi – minchia. Non è colpa mia se sono una deficiente totale, è il cortisone. Può andar bene come scusa?

Perciò pensavo alle porte, a quella della camera centouno che era così mia e non lo è più, che ho sempre immaginato pronta ad aprirsi per due chiacchiere in corridoio e l’offerta di una tazza di tè, ma che non ha mai avuto l’occasione di diventare davvero ciò che volevo; pensavo alla porta della mia stanza di Cambridge, che era pesantissima di legno tarlato e spesso quest’anno si è chiusa su una solitudine intensamente marrone, a proteggere come una conchiglia i miei slanci neo-adolescenziali mentre mi commuovevo di nuovo al suono struggente di Schubert e Brahms e Dvorak.
Pensavo al Palazzo della Carovana, alla targa di metallo con su inciso SI PREGA DI ACCOMPAGNARE LA PORTA. Hanno aggiunto un biglietto di carta con una scritta simile fatta a penna, appiccicato al vetro, forse perché la gente si è abituata alla targa di ottone e sottovaluta l’importanza di accompagnare la porta, che dev’essere capitale per meritare ben due perentori messaggi dedicati.
Accompagno quasi sempre la porta. A volte no, quando il mio pensiero è tutto per la porta dell’Aula Tonelli che si chiuderà alle 6 precisissime, anche prima, e non è proprio il caso di arrivare in ritardo se non vuoi incorrere nelle ire di Z.
Pensavo che in realtà sono le porte ad accompagnare me; e tutto all’improvviso si fa confuso: i cancelli sbarrati in Via Consoli del Mare, la porta del Carducci e quella del Faedo, il mio nuovo portone di casa che si apre malvolentieri, la porta dello studio e quella di camera mia ricoperta di carta, e quella porta a cui busso piano, spesso, cercando affetto e un cucchiaino di miele, trovando più di quanto mi senta di poter domandare, nonostante questi eppure che salgono non richiesti, quando sono sola e malinconica e sotto cortisone.
In tutto ciò quello che sento davvero è il rumore della chiave che gira nella toppa – mai, mai, mai – chiudendomi fuori da una città stregata di ghiaccio e di fumo che ho costruito nel buio e che rimarrà per sempre inesplorata, deserta, immutata finché non mi stancherò di sognarla e cantarne le strade, i pinnacoli, le guglie, i paradossi.

La danza delle porte mi turbina attorno: i sì, i no, i forse – mai, mai, mai – ed ecco sono rinchiusa nel cuore di un labirinto da cui non so districarmi da sola. E’ senza pensare davvero, con quell’ingenua intensità di quando ero bambina e credevo nelle cose magiche, che serro gli occhi e mi arrendo a bisbigliare un ti prego nel buio della mente, quando il bisogno di sentire di nuovo quella voce si fa capricciosamente insopportabile, chiamami.
E’ un filo rosso che ogni volta sa condurmi fuori dal labirinto: mi ritrovo a non provare davvero sorpresa quando suona il telefono, quando le lettere si compongono sullo schermo in risposta al mio richiamo: ancora una volta è come lasciarmi condurre per il lungarno, l’imbarazzo che pian piano scema e l’affetto no, quelle due parole appese davanti agli occhi che gradualmente ritrovano forma e colore e significato.
Va bene così.
Verrà il giorno in cui le magie di quando ero bambina non funzioneranno più. Verrà il giorno in cui ti avrò perduto del tutto e per sempre, ma anche se mai mi prenderai per mano è così facile e naturale lasciarsi riportare a casa dal suono della tua voce, mentre la realtà si ricompone pezzo per pezzo attorno.
Va bene così.

Buon anno.

Ombrello piccolo grande

Nel posto sbagliato, al momento sbagliato: un respiro profondo, chiudo gli occhi un instante nella luce bianca dell’atrio, e il rumore della pioggia che si abbatte incessantemente contro la tettoia sembra triplicare d’intensità. Un breve calcolo, un altro momento d’indecisione, un lampo, un tuono.
Pronti, via.
Pisa sotto la pioggia scrosciante ha un altro aspetto, familiare anch’esso, e non del tutto sgradito. Le gocce si avvicendano indistinguibili in un fruscio crepitante continuo e fragoroso, violente contro la superficie sbilenca di un ombrello rotto, e dopo quattro passi sono già bagnata.
Il portinaio del collegio è sulla porta, lo sguardo perduto nell’oscurità, nella pioggia, e pensa. La pioggia fa pensare le persone, le fa distanti e dolcemente malinconiche, e nel guardarle le sento improvvisamente più vicine, più simili a me, le loro anime messe a nudo nel profondo delle pupille. Per questo, anche da bambina, soprattutto da bambina, amavo il rumore del temporale, e il buio minaccioso che esalta le sfumature pastose delle luci dentro le case, dove la gente non può fare a meno di volgere gli sguardi alle finestre, sentire la pioggia dentro, e pensare.
Un minuto, due, e ho l’acqua dentro le scarpe. Mi stringo all’ombrello e combatto sola contro l’acqua, contro il vento, contro i brividi, e in qualche modo mi sento meglio. E’ come un’espiazione: mentre l’acqua conquista porzioni sempre maggiori dei miei jeans, e comincia a inzuppare i piedi e la giacca, mi sento lavata di colpe immaginarie, del residuo di pensieri sbriciolati, dovutamente calpestati da qualche parte, ma pur sempre così indicibilmente dolci da portare di nascosto alle labbra, anche così, frammentati e inutili e sporchi.
Un lampo, un tuono assordante nell’arco di una frazione di secondo, e tremo tutta di una paura antica, profonda repentina scura, sola nel temporale, sola con le mie briciole di una tenerezza caduta, con i suoni molli delle parole e le sagome nere di lettere minute e gli echi di storie, e una punta di senso di colpa, e un senso di colpa crescente dovuto alla palese inadeguatezza della mia punta di senso di colpa.
Lascio andare tutto quanto alla pioggia, trasalisco e mi accartoccio nel mondo rovesciato di un nuovo lampo, squassata da un altro tuono (ma più lontano, stavolta, un borbottio profondo e prolungato: lo stomaco del cielo digerisce i miei pensieri pesanti).
Sotto le logge non ci sono altro che coppiette che si baciano appassionatamente riparandosi dalla pioggia; la loro presenza m’infastidisce appena e proseguo veloce, fradicia, facendomi scudo con un ombrello preso in prestito contro la realtà, contro le passioni del mondo, spaventose quanto il lampo e il tuono, proteggendo la mia anima oramai pulita e vuota dai pensieri e dai ricordi e dalla poesia. Ma è un ombrello rotto, crollato in parte, che mi ripara appena. E non è mio.
“Ombrello piccolo grande! Piccolo grande, ombrello!”
Gli uomini degli ombrelli si aggirano come scuri spiriti vagabondi nella città quasi deserta, apparentemente a loro agio sotto il temporale, ostentando i grandi ombrelli che li proteggono come incantesimi. Ma anche loro devono essere fradici, lo so.
“Rotto! Piccolo grande ombrello, tre euro!”
Faccio cenno di no con la testa mentre passo accanto a un’ennesima coppia seduta sotto i portici, e lui le tiene la mano.
Non sento più nulla se non il freddo, il bagnato. Così, penso. Così va bene.
Il portone di casa mi si fa incontro per la strada buia: dev’essere l’una e mezza di notte, almeno, e per le traverse del Borgo non c’è proprio più nessuno, nemmeno fantasmi portatori di ombrelli.
Chiudo il mio con cura – non il mio, mi correggo: nel guardarlo lo sento al contempo estraneo e amico, compagno in questa breve battaglia notturna; abbiamo vinto, penso, siamo a casa. Tu rotto e storto e malandato, accasciato sull’aria, mio leale cavaliere per questa notte, e io… io mi sento bene, in qualche senso che in parte mi sfugge.
Su per le scale, passi pieni d’acqua nel silenzio; scivolo in camera, cerco il conforto soffice di un asciugamano, e per questa notte so che dormirò accoccolata nell’abbraccio delle muse, che il cielo e la terra si fonderanno dentro di me e tutto andrà a posto; vorrei imparare quella sorta di dinoccolata disinvoltura che invidio tanto, che sa mettermi a mio agio in qualunque momento e sospingere via tutti gli imbarazzi: ho come l’impressione che allora saprei cosa fare, cosa dire, che tutto sarebbe giusto e luminoso e pulito come dovrebbe, come credo sia là oltre, dietro le maschere della vita.
Mi rinchiudo in cucina senza far rumore, faccio scendere l’acqua calda e lavo i piatti, le ciotole, il pentolino, forse anche nel tentativo di prolungare quella sensazione di sano, semplice vuoto, di lavare via anche le ultime briciole.
Nella luce gialla e pastosa volgo gli occhi verso la finestra, sento la pioggia dentro, e penso.

Giocatori correnti e colori di troppo

[26/11. Qualcosa mi ha ricordato questo post che giaceva come draft ormai da un sacco di tempo. Alla fine, perché no. Non posto perché i pensieri non stanno fermi abbastanza a lungo perché si riesca a farli mettere in posa. Diventano subito vecchi, o falsi, o difettosi, o semplicemente svaporano. Così. Ho pensato di farlo lo stesso.]

Un’altra festa, risa e schiamazzi si mescolano oltre il muro; mi chiedo se non sto forse disimparando quel desiderio di libertà che confonde le forme e scioglie le membra nella danza, che ti trascina in mezzo alla samsara e al movimento in quell’atmosfera calda, fitta d’anime altrui, alla ricerca del tuo spazio da far sbocciare in mezzo a una compagnia turbinante di corpi e di pensieri e respiri affannosi e grida e canzoni.
E’ un segreto che ho saputo, e forse non so più altrettanto bene.
E’ un segreto, ho imparato tempo fa, che richiede gli amici adatti, in ogni caso.
E’ una giornata difficile senza un motivo, come alle volte capita: è una giornata in cui strascichi di cose immaginate mi dondolano dietro gli sguardi, e a tratti mi domando se non avesse un che di più aulico, di più remotamente dolce e piacevolmente doloroso, immaginare: cullarsi dentro il nocciolo di sogni impossibili, nella consapevolezza della loro poetica inutilità.
Ho il cuore troppo dilatato, troppo abituato all’esercizio vano di amare convintamente fantasmi e frammenti di nuvole, ed è come se nulla di reale fosse più sufficiente a riempirlo tutto.
E’ l’azzurro, ne sono convinta. E’ quella tonalità di azzurro che mi mette la solita nostalgia d’un nulla, il desiderio di librarsi dove l’aria è fredda e rada e le parole cristallizzano in gocce di poesia, là dove forse vorrei che qualcuno mi seguisse, dove ogni volta mi ritrovo meravigliata e incantata e sola. Che sia quello, alla fin fine, il luogo per me? Un iperuranio spazzato dai venti di passioni estemporanee, iridescente dei colori di mille piccoli pensieri, cui un demiurgo un po’ linguista s’è ispirato nel regalarmi le forme plastiche e musicali delle parole.
Chi verrebbe con me? Chi accetterebbe di condividere quest’unico paio d’ali?
Sogno, in queste notti frammentate, una vita a turni.
“Pesca una carta” mi dici.
Ma io ho già dimenticato gli effetti degli oggetti in gioco, e comunque c’era questa regola che adesso non ricordo nemmeno più, ma che mi sembrava ingiusta. Pesco una carta, e vorrei domandare cosa significhi ma non posso.
La vita non è un gioco da tavolo, vero?
Eppure forse è proprio quello che mi aspetto: un rigoroso alternarsi d’iniziativa, una lunga fila di successi e fallimenti determinati dal ripetersi di un celeste tiro di dadi. O forse, piuttosto, un complesso gioco di gestione risorse, in cui energie fisiche e mentali ed emotive s’investono in una serie di compiti nella speranza di ottenere dei bonus, nell’attesa che giunga il momento di contare i punti vittoria. Ho il dubbio di non essere brava in questo gioco.
Ho il dubbio d’essere, più che in ogni altro, subottimale.
Ci sono giorni in cui ho così paura di perdere; in cui ho paura che m’importi troppo, o troppo poco, che le mie stesse parole, così amiche, così dolci e sincere in bocca, diventino all’improvviso rancide e traditrici e bugiarde, mio malgrado. Vorrei non saper sentire il canto perfetto e muto di un azzurro che mi è rimasto incastrato da qualche parte in mezzo ai pensieri, e che all’allentarsi di ogni abbraccio accompagna un limpido istante di freddo.

Tocca a te muovere, credo.

Dentro, fuori; vicino, lontano

Lo riconosco, è tutto molto strano.
“Ma tu sei ancora in questo collegio?”
Indietreggio verso la portineria, imbastisco perifrasi tinte d’un lieve imbarazzo, quando la risposta giusta è semplice e concisa: no.
Oggi sono più lucida, e il mondo ha di nuovo una parvenza di normalità, nonostante la tessera della mensa che non funziona e i giri che mi tocca fare per Pisa, e gli scatoloni. I tasselli tornano gradualmente al loro posto, e finalmente mi invade limpida e fresca la consapevolezza che casa mia non era la camera 101 o l’atrio del Faedo, ma forse il tono di voce con cui si chiede “caffè?” dopo mensa, e i sorrisi di persone con cui ho condiviso frammenti di vita, e gli ammiccamenti scintillanti del sole sulla superficie increspata dell’Arno. Un ultimo abbraccio scioglie definitivamente qualcuna di queste angosce che hanno preso casa nel mio stomaco e nella gola e nei pensieri, ed è come una doccia calda, come un ricordo felice, come una tazza di tè col miele, come una poltrona morbida e colorata. Forse davvero non ha così importanza non avere più una poltrona: mi ritrovo a pensare che le poltrone degli altri sono sempre più comode della propria, semplicemente perché hanno accluso un invito a sedersi che le rende speciali. Ripenso a quando bambina interpretavo a modo mio i proverbi: “l’erba del tuo vicino/ è sempre più verde sai” cantava Sebastian ne La Sirenetta, e io ero convintissima che si riferisse a come le case e i giardini degli amici siano posti meravigliosi, ignoti, fatti per essere scoperti, carichi dell’eccitante promessa di una condivisione spontanea e generosa.
Nonostante tutto, forse a causa di tutto, mi sento molto fragile e molto bambina in questo momento. Detesto avere una laurea.
La poesia delle cose si afferra meglio dopo un gin tonic che abbondi di gin, devo aver detto, o forse l’ho solo pensato. E’ vero, in un certo senso. Ma i ritmi dei sogni stavolta sono affannosi, e le danze delle parole sono macabre e non hanno un buon sapore: siedo sola e mi dico che non sarei in grado di filare nessuna poesia con i pensieri consumati che mi saltellano fastidiosamente nella testa. Ascolto il toc, guardando la pallina che va avanti e indietro, pensando che il biliardino è portatore di una poesia spezzata, avida, a tratti aulica a tratti rabbiosa: ascolto i sogni volubili ma laceranti della pallina, e mi domando se io sono ancora in grado di sognare a quel modo, con ferocia tale da trascinare a forza i castelli dell’immaginazione dentro la realtà.
E fare toc.
Forse lo sarei, mi dico, se sapessi cosa voglio. Forse non è l’abilità di sognare e credere quella che sto perdendo, ma quella di capirmi e scegliere.
La poesia delle cose svolazza come una falena nel buio, mentre faccio dondolare le gambe avanti e indietro, avanti e indietro, e mi concentro a odiare la voce della mia coscienza – cos’hai? Sei gelosa? E’ così? – e a pensare nonèverononèverononèvero con scarsa convinzione, quando probabilmente in effetti non lo è. E’ soltanto che è tutto un po’ tagliente e al tempo stesso soffuso, che la poesia delle cose è cieca e maldestra, che sono così stanca e affamata di qualcosa che non so, che il mio sguardo cerca appigli ai quali aggrapparsi e non trova altro che i misteri erratici di una pallina.
Mi è difficile indovinare cosa sto pensando. Forse che bisognerebbe non ripetere cento volte gli stessi errori, e che – beh – come dire, potrei starlo facendolo. Forse che tuttora mi sconvolge come oramai le azioni degli esseri umani mi paiano mosse sempre e soltanto da un bisogno folle di amore e accettazione e vicinanza, al di là di contorte e futili motivazioni contingenti. Forse che, nonostante questa sia la mia festa di laurea, sono qui seduta a prestare orecchio ai silenzi di dentro anziché alle ondivaghe cazzate di fuori, e che tutto sommato è un’attività di una certa dolcezza, lenta e avvolgente e morbidamente dolorosa, nella quale comincio a indulgere un po’ troppo spesso.
Forse vorrei soltanto saper credere che andrà tutto bene.

Ventiquattro anni

E dolcemente dondola verso terra
in un singulto di vento un’altra foglia
secca
e un altro sguardo si perde,
s’imbroglia
fra i secondi dilatati
palpitanti di palpebre
cortesia
di questa birra chiara, credo –
e sono sola, sì
accoccolata in un’eco lontana di tuoni
dietro tende fruscianti
di pioggia.
Luci e oscurità distanti
si amano in segreto
contro i muri della mia stanza
negli angoli aguzzi
sotto scrivanie sbilenche
e ogni voce di passaggio mi risveglia
mi attraversa
mi scompiglia
appena:
penso intensamente
a non pensare a niente
mentre la notte muove
stormi di stelle nascoste,
mentre il tempo si arena
e piove
piove, piove.
Ecco, un altro anno s’invola
verso le nuvole
ma io rimango:
piango
la pioggia che cola
e sì
sì, sono sola
ascolto
parti immaginarie di passi
per le scale
è un fantasma, o forse
un’ansia che sale
e busseranno pensieri sperduti
alla porta
fradici, affamati
e non faranno male, magari
ma io lo so
faranno danni;
ho questa nostalgia, stanotte
tiepida appannata
che canta il temporale,
e per di più
ho ventiquattro anni.